Le nebulose planetarie sono più di 3mila solo nella nostra galassia: il telescopio ne rivela forme e colori che sembrano opera di un pittore. Le sfumature di luce dell’eternità
Prima lettera di san Paolo ai Corinzi (15,41-44): « Non ogni carne è la medesima carne; altra è la carne di uomini e altra quella di animali; altra quella di uccelli e altra quella di pesci. Vi sono corpi celesti e corpi terrestri, ma altro è lo splendore dei corpi celesti, e altro quello dei corpi terrestri. Altro è lo splendore del sole, altro lo splendore della luna e altro lo splendore delle stelle: ogni stella infatti differisce da un’altra nello splendore. Così anche la risurrezione dei morti: si semina corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale». Sebbene il cielo, per chi non sa, appaia solo come una cortina punteggiata di luci, per chi guarda a lungo, approfittando dell’intelligenza umana che ha inventato tecnologia per superare la barriera dei nostri confini di terra, esso rivela i suoi segreti più struggenti.
Non è solo la nascita, ma è soprattutto la morte che nel cosmo assume le forme più splendenti nella forma di una tipologia di oggetto del cielo profondo del tutto peculiare: le nebulose planetarie. Il nome, va detto subito, è un’eredità di tempi antichi. Non hanno nulla a che vedere coi pianeti, ma devono il loro nome alla forma sferica e sfocata che ricordava ai primi astronomi, armati di mezzi poveri e tanta pazienza, i dischi opachi di Urano e Nettuno. Si tratta, in realtà, del canto del cigno di stelle come il nostro Sole. Dopo miliardi di anni di faticosa combustione, quando tutto l’idrogeno è stato consumato, il nucleo della stella collassa e gli strati esterni vengono espulsi nello spazio. Un vento stellare li spinge via, e la luce ultravioletta residua del nucleo morente li accende, come fiato su una vetrata gelata. Ed ecco che la morte si fa colore. La Nebulosa Elica (NGC 7293), ad esempio, è distante circa 650 anni luce da noi. Si trova nella costellazione dell’Acquario e al telescopio è come un occhio celeste, una pupilla immobile che ci fissa nel tempo. Ha un diametro di circa 2,5 anni luce: significa che la luce impiega due anni e mezzo per attraversarla da un lato all’altro. Ma quel che colpisce non è la misura, bensì il senso di essere davanti a qualcosa che si è appena dissolto e che già pare eterno.
C’è poi la Nebulosa Anello (M57), nella costellazione della Lira. Un cerchio quasi perfetto che fluttua come una bolla in un bicchiere di buio. La simmetria inganna: non è ordine, è abbandono. Il suo anello luminescente, quasi perfetto, è in realtà un’illusione: una struttura tridimensionale proiettata sul piano del cielo. Al centro la nana bianca, il cuore residuo della stella, pulsa fredda e inesorabile. La temperatura superficiale supera i 100.000 gradi Kelvin, ma non scalda più nulla. Il centro si è svuotato. È rimasto un guscio, e il guscio risplende per un po’, finché l’eco dell’esplosione si spegnerà anche lì. Ma per adesso, resiste. Anche qui, la chimica è sovrana. L’idrogeno fluoresce sotto l’impulso della radiazione ultravioletta emessa dal nucleo della stella spenta. Ogni colore visibile è una vibrazione precisa, un’eco di temperature che superano i centomila gradi. Il blu centrale, la corona rossastra, il bordo verdognolo: ogni sfumatura è una firma, un’indelebile testimonianza di un evento che non si ripeterà mai più nella stessa forma.
Chi scruta questi oggetti si trova proiettato nello studio di un pittore. Eppure è solo fisica. L’espulsione degli strati esterni, la ionizzazione dei gas, l’emissione di linee spettrali dovute all’ossigeno, all’idrogeno, all’azoto. Come se la morte avesse un proprio linguaggio di colori. Eppure, guardandole, si fa fatica a pensare alla chimica. Perché in esse c’è qualcosa che ricorda le vetrate gotiche, le cupole d’oriente, il volto pallido della notte. C’è in queste forme un senso di grandezza che non nasce dalla potenza, ma dalla fragilità. Perché una nebulosa planetaria è transitoria: dura solo poche decine di migliaia di anni. Poi si dissolve, dispersa tra le stelle. Quel che vediamo, dunque, è un istante cosmico, un battito di ciglia in un tempo che misura miliardi di anni. Eppure noi, pellegrini in questo spazio di eterno, abbiamo il privilegio di coglierlo. C’è qualcosa di profondamente umano in questa contemplazione: vedere la fine, e trovarla bella. La morte della stella non è una catastrofe, ma un atto di creazione. I gas che si espandono arricchiscono lo spazio interstellare, seminano elementi pesanti. Da questi nasceranno nuove stelle, nuovi mondi. Forse la vita stessa.
Noi, fatti di carbonio, azoto, ossigeno, siamo i figli di morti come queste. Si dice spesso: “siamo polvere di stelle”. Ma è più giusto dire: siamo il lutto luminoso di una stella scomparsa. E ogni nebulosa planetaria, lassù, ne è il monumento. Incontriamo una delle prime scoperte. É la nebulosa Manubrio, situata nella Volpetta. L’astronomo Charles Messier non cercava bellezza: cercava comete. Ma fu proprio catalogando ciò che non erano comete che scoprì queste meraviglie. Una lezione paradossale: per trovare ciò che passa bisogna guardare ciò che resta. Siamo nel 1764. Ma questa forma che ricorda un manubrio o forse le ali aperte di un animale mitologico è un’apparizione che continua a trasformarsi. Il gas che fu la pelle della stella madre si espande a una velocità che l’uomo non può concepire: ventimila chilometri all’ora. Gli atomi di elio e di carbonio, sono sospesi come note in un’aria che nessun respiro potrà mai percorrere. È un’esplosione che non fa rumore, e proprio per questo grida. Dentro Manubrio non c’è nulla di romantico, eppure ogni suo arco luminoso è un verso, un verso di quella poesia cosmica che parla solo con numeri e luce.
Di nebulose planetarie ce ne sono più di 3.000 solo nella nostra galassia. Moltissime con nomi poetici: la Nebulosa Farfalla (NGC 6302), con le sue ali infuocate; la Nebulosa Occhio di Gatto (NGC 6543), con le sue simmetrie inquietanti. Una pupilla celeste che ci guarda da quell’immensità, un occhio che non chiude mai le palpebre, che osserva i secoli rotolare come pietre nella corrente. La Terra stessa sarà avvolta, un giorno, da una di queste bellezze. Fra circa cinque miliardi di anni il Sole diventerà una gigante rossa, poi una nebulosa planetaria. Il nostro cielo sarà, per qualche migliaio d’anni, una tela luminosa. Poi più nulla. Ma ora, possiamo ancora guardarle. Quegli occhi nel cielo non sono solo lo sguardo delle stelle. Sono anche il nostro. Guardiamo la morte, e vi troviamo significato. E forse è questo che rende le nebulose planetarie così belle: che non sono più stelle, e non sono ancora polvere.
Sono la soglia. L’istante sospeso in cui qualcosa finisce, ma la luce non se n’è ancora andata. Una avvisaglia della più grande delle promesse di Cristo, vado a prepararvi un posto. Le nebulose planetarie sono oggetti di meraviglia che suggeriscono che la morte può avere altre sfumature che non siano il nero, le sfumature della luce delle risurrezione che incontrando la nostra vita, differente una dall’altra, proietta nell’eterno colori differenti, rende la nostra esistenza protesa verso Cristo, un capolavoro eterno, testimonianza di una buona battaglia della fede che trova nell’incontro con il Risorto la sua – letteralmente – consacrazione. In alto il cuore.
don Luca Peyron
Qui il post originale