Le discussioni da bar ora dal ‘balcone’ della rete

I nostri nonni per chiacchierare con un pubblico che non fosse quello famigliare dovevano andare al bar, al circolo, in piazza: solo in quei contesti potevano avere un confronto di opinioni (intelligenti o meno che fossero). La rivoluzione digitale ha invece democraticizzato tutto questo: possiamo conoscere l’opinione di un cinese sull’ultimo fatto di cronaca italiana e venire a conoscenza di usi e costumi sudcoreani stando comodamente seduti sul nostro divano. Internet regala a tutti un balcone virtuale da cui gridare che andrà tutto bene, insieme alla possibilità di essere ascoltati da migliaia di persone, anche se sto gridando dal mio piccolo comune.

Queste opinioni (normalmente non richieste) sono spesso nette, spietate, a volte crudeli. Nascosti dietro a uno smartphone, con un’immagine profilo al posto del volto e dei commenti al posto del dialogo, molti utenti si sentono in diritto di esprimere la loro opinione senza la minima preoccupazione per la controparte. Anzi, si tende ad esasperare la schiettezza per fare notizia, per scatenare le risate di chi non è coinvolto in prima persona e magari per finire in qualche grossa pagina da centinaia di migliaia di followers che ri-condivide i commenti più spiritosi, regalando i proverbiali quindici minuti di gloria (o anche meno).

Ciò che per lo più i social hanno da offrire è uno scambio di monologhi. L’altro non esiste, non come persona almeno, ma è ridotto a mero spunto per il mio mono-logo. Non troviamo un vero dia-logo, basato su un ascolto attivo, capace di plasmare il mio punto di vista. So già quello che devo e voglio dire, e lo dirò.

Sia chiaro: nulla di tutto ciò è nuovo nella natura umana. La scissione della persona è qualcosa che esiste fin da quanto l’uomo ha fatto la sua prima comparsa su questo mondo. Una su tutti, pensiamo alla grande scissione del feriale contro il weekend, dell’ufficio contro il bar. Grandi lavoratori, diligenti e seri dal lunedì al venerdì. Poi improvvisamente la “libertà”: alcol e magari droga, «per essere me stesso».

Si è ormai diffusa e consolidata l’idea che per essere noi stessi abbiamo bisogno di inebriarci, perdere i freni, in poche parole di non essere noi stessi. Paradossale. Perdere il controllo è l’unico modo per essere veramente ciò che sono, come se la mia ragione e il buon senso fossero un ostacolo all’espressione della mia personalità.

L’internet permette tutto questo senza dover ottundere il raziocinio. Se in ufficio non avrei mai il coraggio di dire al mio capo ciò che penso della fantasia della sua cravatta (almeno non da sobrio), online non ho nessuna paura nello scrivere al Presidente del Consiglio che è un incompetente, senza aver bevuto nemmeno un goccio di vino. Non può succedere nulla, mica è reale.

Ma seduti sui divani a scrivere sulle tastiere di uno schermo, a fissare questa finestra che si affaccia sul nostro ego, siamo sempre noi, gli stessi che nella “vita vera” tacciono di fronte ai soprusi. Se da una parte Pirandello ci insegna che siamo “Uno, nessuno e centomila”, dall’altra parte Cristo ci chiama all’unità.

Chi sguazza nella divisione dell’uomo è invece il Nemico, che ha come unico scopo quello di allontanarci il più possibile da Dio, poco importa come. L’Onnipotente ci ha creati a sua immagine e somiglianza: somigliamo a Lui che riesce a restare Uno pur nella Trinità. Se ci dividiamo, il Nemico vince, perché opacizziamo la somiglianza.

Parafrasando pur con una certa libertà la presenza eucaristica, nella quale Cristo è reale per mezzo del sacramento, possiamo dire che ciò che è virtuale è reale, per mezzo della rete. Gesù Cristo mantiene realmente in sé la natura divina e quella umana e ogni tentativo di dividerle è inutile, perché in lui l’unità è perfetta. Non esiste nulla di umano che non sia divino. E non esiste nulla di virtuale che non sia reale. Se Dio è Uno, lo è anche l’uomo. E se la nostra identità sta nell’unità, la scissione appartiene al peccato, non alla salvezza. Queste dunque le cose che ci restano: unicità, irripetibilità e libertà. Ma, di tutte, la più delicata è l’unità.

Giovanni ZAGO, insegnante di religione

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