L’intelligenza artificiale e il transumano, approccio teologico-morale

Vorrei qui intervenire sulla grande tematica del transumano nel nostro tempo, pur sapendo che il tema è assai complesso soprattutto se affrontato con approccio teologico-morale.

Le recenti polemiche circa la così detta intelligenza artificiale (IA), sono date dalla complessità delle argomentazioni e dei relativi sviluppi che ne derivano.

La difficoltà ad affrontare la tematica è data dal fatto che il costante progresso della tecnica e delle neuroscienze in continuo sviluppo, fanno emergere quesiti di ordine epistemologico, antropologico e quindi necessariamente di tipo etico.

Intenderei tentare di delineare brevemente le caratteristiche qualificanti la persona umana, senza pretendere di essere risolutivo.

Partendo dalla tradizione filosofica occidentale, classicamente essa traccia sei caratteristiche tipiche della persona: razionalità; unità (identità); inseità (sostanzialità); perseità (autodeterminazione); finitezza; libertà.

Questi concetti ci aprono inevitabilmente ad un grande quesito: una persona, può diventare qualcosa di diverso da una persona? Entra qui in campo l’altra gravosa questione: il tema della coscienza.

Gli studiosi delle neuroscienze oggi distinguono consciousness da conscience, dove il primo termine (consciousness) indica un fenomeno altamente complesso con cui si ha particolare difficoltà a legare “il cerebrale” e “il mentale”; il secondo termine (conscience) indica invece il senso interiore di “ciò che è giusto” e “ciò che è sbagliato”.

Nella tradizione cristiana, la coscienza è stata descritta come giudizio ultimo pratico della persona chiamata a fare il bene e ad evitare il male, attraverso un processo simultaneo che comprende l’accoglienza della norma (finis operis), l’intenzione particolare dell’agente (finis operantis), la situazione specificativa (dell’atto o della persona), e le conseguenze dell’azione che si vuole compiere.

La questione è assai complessa e difficilmente dirimibile in poche battute.

Intelligenza Artificiale e sue applicazioni

Il tema etico che sta emergendo assume una rilevanza di primaria importanza. Se la persona è quanto ho cercato di presentare, certamente una macchina e/o un algoritmo, non possono essere equiparati alla persona.

Eppure, accade che le macchine, attraverso le reti neurali, imitino il comportamento dell’umano nell’apprendimento permettendo di imparare dai dati reali, senza il bisogno di essere riprogrammate.

Se è certamente vero che dall’IA possano derivare benefici clinici per produrre diagnosi più precise e veloci, sono da tempo anche riconosciute e conclamate alcune criticità circa i potenziali bias statici e bias di automazione.

Tali criticità, divengono rischi se si pensa che l’IA processa ogni dato e persino le fake news e le bufale, senza che l’algoritmo ne faccia distinzione alcuna.

Se si vuole intavolare un dibattito onesto, bisogna dire che la tecnologia applicata all’uomo non può non tener conto del fatto che, per risolvere un problema, un microchip sia in grado di generarne altri cento, al momento neanche immaginabili, che porta al rischio di giungere all’eugenetica.

Giunti ormai anche alla realizzazione di entità semi-viventi con la creazione del “DishBrain” dalla Monash University, la quale ha creato un chip semi-biologico contenente cellule celebrali di topo, è chiaro che anche questa nuova frontiera influenzerà lo sviluppo dell’IA, amplificando le implicazioni etiche di tale frontiera.

Da teologo moralista, non posso non mettere in luce una sostanziale questione: vi è una differenza tra una “entità” creata dall’uomo e l’uomo creatore di “entità”.

Non è la coscienza che rende l’uomo capace di creare, ma essendo egli stesso creato da Dio, è dotato anche di spirito e di anima: concetti questi che divengono fondamentali e che non possono essere relegati alla sola sfera del credente.

È proprio l’anima che differenzia la macchina dall’uomo. Quell’anima che rende unici e irripetibili, che è la parte immateriale dell’uomo e che lo rende immortale; è quel “soffio” che lo rende «vivo» appunto.

Don Nicola ROTUNDO, Arcidiocesi di Catanzaro-Squillace

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