Tecnologia e lavoro, come cambia l’economia

Warren Buffet, il celebre finanziere statunitense e uno degli uomini più ricchi del pianeta, ha più volte dichiarato che il problema per gli Usa (e per il mondo) sono le persone come lui. Gli ultimi 20-30 anni sono stati incredibilmente profittevoli per coloro che, come lui, comparivano nella lista dei più ricchi del pianeta e questo potrebbe avere effetti negativi per la crescita economica (c’è un limite a quanto un singolo essere umano, qualunque sia la sua ricchezza, può consumare…). Tra le ragioni di questa situazione il finanziere statunitense individua la velocità di fuga della tecnologia applicata al lavoro: è sempre più elevata e ciò crea una riduzione della manodopera ed una crescente difficoltà a «riformarla» in linea con le nuove esigenze (e tecnologie). Non si tratta di una novità: nel 1800 l’80% della forza lavoro era impegnata a produrre il cibo sufficiente a tutti gli Stati Uniti, oggi è sufficiente il 3%. Ma quali sono le peculiarità di questa, quarta, rivoluzione dettata dalla robotica e dalla digitalizzazione?

Innanzitutto, occorre osservare come le innovazioni tecnologiche della fine dell’‘800 e dell’inizio del ‘900 abbiano agito «virtuosamente» migliorando nei Paesi industrializzati le condizioni del lavoro e riducendo quello minorile. Nei Paesi industrializzati però non esiste, quasi, più «lavoro» indesiderato (quello al quale erano in passato adibiti dei bambini), sostituibile senza rimpianto con i robot. Ma anche nei Paesi in via di sviluppo il rischio viene avvertito: l’Africa, in particolare, sta faticosamente cercando di crescere facendo leva sulla ampia (e crescente) disponibilità di forza lavoro giovane ed a basso costo che potrebbe non costituire più un vantaggio competitivo in un mondo di robot. L’ altra fondamentale novità dell’«era dei robot» è data dalla velocità senza precedenti alla quale la tecnologia sta plasmando il nostro mondo. Avremo miliardi di persone collegate attraverso i loro cellulari, con crescenti possibilità di elaborare dati ed informazioni e crescenti applicazioni, consentite dall’intelligenza artificiale e dalla robotica, sotto forma di biotecnologia, internet applicato alle cose, auto senza guidatore, stampanti 3D… Questa rivoluzione, oltre ad una enorme incertezza sul nostro futuro, sta nondimeno creando, e continuerà a farlo, enormi opportunità e benefici: ma in modo disomogeneo e non per tutti.

Fino a che punto le meraviglie che il progresso ci sta rendendo disponibili accresceranno il benessere collettivo senza sconvolgere gli equilibri sociali, creando cioè schiere di disoccupati inadatti (o, peggio, non necessari) al nuovo modo di produrre? La concentrazione della ricchezza, che anche secondo Warren Buffet mette a rischio la crescita futura, è certamente uno dei sottoprodotti non voluti delle tecnologie che permeeranno sempre più il nostro secolo. Tra l’inizio del 1800 ad oggi, in Inghilterra (dove nacque la pima rivoluzione industriale), il reddito medio è salito da 1.500 a 30.000 sterline e nulla impedisce di pensare che questo possa continuare. L’ondata di marea continuerà a creare, ad un ritmo accelerato, nuovi prodotti e servizi che renderanno più piacevole (e lunga) la nostra esistenza consentendoci di muoverci, fare acquisti, curarci, istruirci e divertirci sempre più facilmente ed utilizzando in modo più efficiente le risorse (non solo quelle energetiche). Non avremo più tempo ma lo impiegheremo in modo sempre più intenso (anche se questo non verrà visto da tutti come un miglioramento). Le aziende (ed i Paesi) che sapranno cavalcare questa nuova ondata rivoluzionaria ne trarranno enormi benefici, almeno sino a quando l’eccessiva concentrazione della ricchezza non porrà un freno ai consumi di beni e servizi «automatizzati».

Ad emergere vincenti dalle rivoluzioni sono coloro che la governano e che sono, nel nostro caso, i possessori di capitale, intellettuale e fisico: gli innovatori, gli azionisti e gli investitori. I lavori ad elevata intensità di conoscenza (e legati ai rapporti umani) saranno sempre più richiesti (e ben retribuiti) mentre quelli poveri di contenuto tenderanno a scomparire (e ad essere sottopagati). Occorrerà ponderare bene le proprie scelte. E se sbaglieremo non sarà un robot ad assolverci.

Luca MARTINA – Università degli Studi di Torino

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One thought on “Tecnologia e lavoro, come cambia l’economia

  1. Gentile Professore,
    mi permetto di dissentire dalla Sua affermazione “i lavori…poveri di contenuto tenderanno a scomparire …”

    Come sappiamo, gli Studi posti in essere dalle Università più prestigiose (uno dei primi quello dell’Università di Oxford) nonché da tanti Centri Studi (McKinsey…), danno in proposito esiti difformi (l’osservazione è stata formulata anche dal prof. Floridi); talvolta, poi, non è chiaro se le conclusioni si riferiscano a dati completamente aggregati o se possano dirsi omogenee le condizioni di contesto che sottendono tali pronostici.

    Si consideri anche che, in altre ricerche sugli impatti della IA, la previsione è, invece, di crescita globale dell’occupazione (International Federation of Robotics, 2016)

    Quel che è certo è che, ad oggi, gli Stati con la maggiore penetrazione di Robot nel sistema industriale sono, ad oggi, anche quelli con i più bassi tassi di disoccupazione (uno per molti, la Corea del Sud: 531 robot per 10.000 occupati e solo il 3,4% della popolazione attiva in cerca di lavoro).

    Anche se abbandoniamo lo sguardo dagli esiti delle ricerche e da ciò che accade nel mondo per posarlo sulla realtà italiana e torinese, noterei, piuttosto, un fenomeno diverso: quello della polarizzazione delle opportunità lavorative che si accentrano nelle aree ad alta intensità di conoscenza, da Lei citate, ma anche in quelle povere di contenuti (in particolare nella logistica e nei servizi a basso valore aggiunto) che non manifestano, al netto di altri impatti negativi, segnali di crisi.

    Non può certamente essere addebitata alla digitalizzazione la crisi del lavoro nella nostra area, in cui non mancano ragioni ultronee alla base della marcata contrazione delle opportunità di lavoro: per tutte basti segnalare la crisi del comparto automotive e, da ultimo, la pandemia.

    Dalla forbice che si è creata tra mansioni “alte” e “basse”, e dal conseguente svuotamento dell’area intermedia, nasce il fenomeno (con il quale facciamo i conti tutti i giorni) conosciuto anche come la scomparsa dei Clerical Workers, l’assottigliamento, cioè, delle figure impiegatizie, prevalentemente con basse competenze amministrative, che costituivano il nerbo della micro borghesia e per le quali sarebbe urgente e importante un’intensa azione di reskilling.

    Il fenomeno nuovo, che risale prevalentemente alla digitalizzazione crescente, non è, pertanto, la contrazione del lavoro tout court, ma è rappresentato dal rischio dello scivolamento lavorativo, e quindi sociale, delle figure professionali appena richiamate: di tale processo di deterioramento, peraltro, ho potuto prendere conoscenza diretta nel periodo in cui ho operato presso la benemerita Fondazione don Mario Operti.

    Sono, infine, completamente d’accordo sulla circostanza da Lei segnalata, del crescente numero di lavoratori costretti a operare sottopagati, fenomeno dovuto (non solo) alla crescente “piattaformizzazione” (UBER per tutti) e “taskificazione” dei lavori resa possibile da un uso non sempre corretto della Intelligenza Artificiale.

    Per completezza, sarebbe anche interessante approfondire mettere a fuoco il riemergere di tradizionali tipi di sfruttamento, quali il caporalato, all’ombra delle nuove tecnologie informatiche.

    La ringrazio per l’attenzione e La saluto cordialmente.

    GP Masone

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